“Io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant'anni, all'aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire”. [Zdnek Zeman]
Simone Inzaghi, nel silenzio più totale dopo quattro anni intensi, ha lasciato l’Inter. Lo ha fatto pochi giorni dopo una clamorosa e inspiegabile sconfitta per 5-0 nella finale di Champions League contro il PSG, come se la sua squadra non fosse mai realmente scesa in campo. E questo, dopo aver eliminato in semifinale uno dei Barcellona più forti degli ultimi dieci anni, con una prestazione tatticamente perfetta e con quel pizzico di coraggio e fortuna che nel calcio non guastano mai. Il crollo finale, soprattutto in campionato e inspiegabilmente nella partita più importante dell’anno, è stato fatale, ma anche profondamente amaro. Eppure, i Mass media e parte della tifoseria non hanno avuto nessun dubbo: da allenatore in ascesa del calcio europeo a tecnico sopravvalutato e fortunato, il passaggio è stato fulmineo. Inzaghi è stato screditato in fretta e con superficialità, come spesso accade nel nostro Paese quando qualcuno decide di intraprendere strade diverse e quando non ...
Con il talento si vincono le
partite, ma è con il lavoro di squadra e l'intelligenza che si vincono i
campionati.
Lo sostiene Air JORDAN, uno dei più
grandi cestisti della storia del basket mondiale.
La storia del calcio offre un piatto ricco di
calciatori dotati di grande ingegno e spirito di gruppo. Tra questi c’è sicuramente l’ex terzino sinistro
della Juventus, Gianluca Pessotto. Basta leggere il ricco palmares
del calciatore friulano per capire che l’affermazione di Michael Jordan è
assolutamente vera. Fanculo al talento e a Madre Natura. Fanculo ai lacchè, ai
saltimbanchi e a tutti quelli che ci ricordano, da quando eravamo piccoli
bozzoli sull’astronave madre: “Non ce la puoi fare!”.
Io ce la posso fare, anzi ce la farò….e ti dimostrerò che ce la farò a
qualsiasi costo.
Meglio essere orfani a questo punto - bastardelli dentro come max filosofia di
vita, ripudiando il sentimento più viscerare e puro di tutti: l’amore di un
figlio per colei che ci ha portato in grembo - piuttosto che chinare il capo
dinnanzi alle regole assurde, spesso ingiuste, del destino. Fanculo, pure, al
destino avverso! Fanculo a chi sostiene, con convinzione da una vita, che il
brutto anatroccolo rimarrà tale per tutta la sua misera esistenza bestiale.
Costui, che tu sia maledetto, fatemelo conoscere perché gli voglio parlare; Gli
metterò, sicuramente - sono incazzato nero con l’uomo senza il volto - le mani
addosso quando lo vedo. Datemi almeno una possibilità di contradditorio, vi
prego, non chiedo tanto alla mia vita mortale; non credi? Lo si fa anche per un
condannato a morte. Non voglio vivere la vita con una pena ingiusta da
scontare.
Perché alla fine il destino può essere riscritto da chiunque, seppure a fatica,
uomo o donna.
Sì, sono assolutamente convinto. Chiunque abbia un po' di
spirito di volontà e amor proprio verso sé stesso; colpo su colpo, sfinito
dalla fatica, all’estremo delle forze, soddisfatto dagli obiettivi raggiunti,
deluso dai possibili fallimenti, angosciato dal peso enorme delle proprie e
altrui colpe. Finché c’è la vita, c’è speranza di superare i propri limiti e in
questo caso - l’epopea calcistica di Gianluca Pessotto è un esempio in tal
senso - non è una frase fatta, ma è semplicemente nuda e cruda realtà.
Una realtà netta, schiacciante, che molti di voi faranno fatica a comprendere
tra queste righe perse di un blogger senza arte né parte. Perché è naturale,
persino umano, vivere con il freno a mano tirato, come unica ragione di vita,
per non pensare alla pochezza dell’esistenza umana dinnanzi alla sconfinata
grandezza del cielo e le sue stelle luminose, spesso, lontane e accecanti come
i sogni.
Nella bacheca di Pessotto c’è un po' di
tutto e di più: un bottino di inestimabile valore da nascondere sotto il
miglior albero del giardino dei ciliegi e coltivato con amore dentro ciascuno
di noi.
Un campionato di Serie C2 vinto con il Varese nella stagione 1989-1990, 4 Campionati
di serie A, 4 Supercoppe italiane, 1 UEFA Champions League, 1 Coppa
Intercontinentale, 1 Supercoppa UEFA e 1 Coppa Intertoto UEFA.
Dodici trofei conquistati con la gloriosa maglia della Juventus cucita e
stirata dal miglior sarto sulla piazza, sulla seconda pelle di un calciatore.
La mitica casacca a strisce bianche e nere - quella di Boniperti e Omar Sivori
tra i tanti campionissimi juventini del passato - che soltanto pochi anni
addietro era stata indossata nientedimeno che da Gaetano Scirea, Paolo Rossi,
Marco Tardelli e Michel Platini. Uomini della provvidenza e bastoni della
vecchiaia, fari abbaglianti nel cammino della Vecchia Signora.
Perché - mi pare scontato - quando la storia è stata scritta con pagine
memorabili della memoria, difficili da dimenticare anche per l’uomo meno
nostalgico esistente sulla faccia della terra, sarà difficile per chiunque
giocare a calcio con quella maglietta cucita a fuoco sulla pelle.
Chi veste la maglia della Juventus diventa juventino dentro finché morte non
lo separerà da quel feticcio materiale.
Pessotto porterà sulla sua schiena, curvata dalla fatica che non è mai sprecata
per un terzino sinistro, la maglia pesante di un certo Antonio Cabrini,
campione del mondo ’82 e uno dei terzini italiani più forti di tutti i tempi.
La vita è dura per un
calciatore della Juventus. Diciamo la verità,
mettendo per un attimo la faziosità del tifoso in un angolo. Da parte, come
meriterebbe lo sport. Perché una lunga storia di successo peserà sempre, e per
sempre, sulle gambe e nella psiche di un calciatore bianconero. Perché
nel DNA della Juventus c’è la vittoria come unica ragione di vita. Vittoria
o morte, un concetto rivoluzionario, tutto il resto non conterà un cazzo perché
la Juventus ha sposato, a pieno, l’antica teoria dell’evoluzione dei club
vincenti di calcio. Vi dirò di più, già, si racconta che lo stesso Darwin fosse
uno juventino sfegatato, ancor prima che il calcio fosse inventato -
sembrerebbe - dai cinesi durante l'XI secolo avanti Cristo.
Perché nello sport nessuno ti regala niente. Perché i bla, bla, bla nel
mondo del calcio, come nella vita, contano come uno zero a zero, senza
emozioni, tra la prima e l’ultima in classifica. Bla, bla, bla che
renderanno la vita di un pover uomo fin troppo ridondante da essere, pure,
raccontata dall’umile scrivente. Peggio, se vissuta come attore protagonista
pagante.
Eppure, c’è qualcosa che non tornerà nella storia umana di Gianluca Pessotto
nonostante il grande successo ottenuto durante la sua lunga carriera
agonistica. Ma ci ritorneremo più avanti.
Protagonista assoluto nella finale della
Champions League 1995-1996 vinta 4-2 ai rigori contro l’Ajax. Gianluca Pessotto è il titolare inamovibile di una
delle squadre più forti della rosa bianconera.
Di seguito, la formazione titolare di Champions; serata durante la quale
Gianluca Pessotto e i suoi compagni - con allenatore Mr. Lippi - hanno
fatto la storia del calcio italiano e mondiale.
Peruzzi, Ferrara, Pessotto, Torricelli, Vierchowod, Paulo Sousa, Deschamps,
Conte, Vialli, Del Piero, Ravanelli.
Pessotto è un terzino affidabile, molto duttile e capace di giocare su entrambe
le fasce di gioco. Dotato di un piede destro educato, ben undici reti siglate
in carriera. Fisico compatto per un’altezza di 1,73 cm, agile ed esplosivo,
abile nel cross, veloce nel breve e nel lungo. Insomma, il prototipo perfetto
del terzino sinistro della vecchia scuola italiana. Quella che sfornava, a
regola d’arte, un terzino sinistro uno dietro l’altro. Da Facchetti a Cabrini,
da Nela a Maldini fino ad arrivare a Pessotto; Colui da prendere ad esempio tra
i campetti di periferia dove l’erba si fa spazio a fatica tra le crepe
dell’asfalto e da quel terreno arido come il Deserto del Sahara. Un esempio da
importare nelle scuole di calcio, dove la fame e la sete è tanta per un giovane
calciatore. Affamati di calcio tanto da organizzare più di un pasto ricco e
abbondante durante la giornata. Assetati di leggerezza e di quella sensazione
di libertà che si prova soltanto calciando un pallone in aria, a cielo aperto,
fino la siepe del vicino; fuori dal campo visivo dello sguardo, a perdersi
nello spazio e nel tempo. Pessotto è
stato un calciatore, molto corretto in campo. Pochissimi cartellini rossi
in carriera. Un leader silenzioso, un umile predicatore di calcio con i capelli
dorati dal sole e corti come quelli di un modesto monaco francescano; un
capitano silenzioso senza gradi sul petto, soltanto con una piastrina di
riconoscimento al collo: quella del terzino sinistro. Fuori dal rettangolo
di gioco Pessotto è l’antistar per eccellenza, un sopravvissuto alla fama e al
successo tipico della gabbia dorata del mondo del calcio. Laureato in Economia,
appassionato di letteratura.
Eppure, il successo, la fama, il denaro, i tanti titoli messi in bacheca, gli
amici, l’amore, la società e la materia, spesso vile e tentatrice, non lo
cambieranno come calciatore, ma soprattutto come uomo. Dentro si porterà
quell’angoscia tipica degli uomini troppo sensibili per essere capiti dal
mondo. Gianluca Pessotto vive costantemente in una bottiglia di vetro portata
via dal mare da un capo all’altro del mondo tra le onde in tempesta, il garrito
del gabbiano e il silenzio assordante dell’Oceano.
Pessotto vive in un mondo ovattato, un’isola deserta dove il silenzio è l’unica
motivazione, nonché fonte d’ispirazione, per continuare a sopravvivere in un
mondo difficile da comprendere a cuore aperto. Pessotto vive la
quotidianità con quella sensazione di disagio che ti logora dentro, efficace e
crudele come una goccia d’acqua che scava una roccia di montagna.
Con un rosario in mano il 22-05-1996 in una notte calda
dell’Olimpico, lontano dalle mura amiche -nell’assoluta mancanza di suoni e di
rumori dell’ambiente circostante, in una condizione spirituale votata
all’ascolto e alla pace interiore- Gianluca Pessotto si dirigerà nuovamente “solo”
nell’aria di gioco a battere un calcio di rigore.
Un sognatore con un
rosario in mano e un pallone tra i piedi a undici metri dalla linea di porta.
Perché per un terzino sinistro della Juventus non è mai troppo tardi per tirare
un calcio di rigore. Perché, talvolta, il silenzio per un terzino sinistro è d’oro.
The Champions!
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