“Ma Nino non aver paura di tirare un calcio di
rigore…Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”
Tra le note della splendida canzone di De Gregori,
dedicata all’indimenticato e compianto capitano della Roma Agostino Di
Bartolomei, ci si dimentica spesso che i calciatori sono solo degli uomini.
Persone che vivono affrontando quotidianamente paure, ansie, debolezze proprio
come la maggior parte delle persone comuni. In Italia sempre più
spesso, dopo le catastrofi della nostra nazionale, si parla di mancanza di
giovani, del nostro calcio sin troppo arretrato rispetto a quello degli altri
paesi ma soprattutto si parla troppo spesso di non riuscire a coltivare il
talento dei nostri ragazzi all’interno del campionato italiano. In effetti
lo dicono i numeri, le statistiche, i pochissimi giocatori italiani presenti
nelle rose delle principali squadre di serie A e soprattutto la presenza dei
moltissimi stranieri in tutte le categorie calcistiche e anche all’interno dei
numerosi settori giovanili. Eppure, nonostante tutto è impossibile affermare
con estrema certezza che di giovani italiani con del talento in giro non ce ne
siano ma il problema principale è che quasi nessuno di loro, anche quando lo si
riesce a trovare, eccetto qualche rara eccezione, riesce a esplodere
completamente esprimendosi a grandi livelli. Rimanendo ancorati, nelle migliori
delle ipotesi, ad una carriera da ottimi gregari o di promesse incompiute tra
il limbo del calcio dilettantistico e quello professionistico.
Quindi la domanda da porsi è una soltanto: perché i
giovani italiani non riescono a sfondare nel calcio che conta? Le risposte sono tante come diverse rimangono le
cause che non sono solo direttamente riconducibili alla elevatissima presenza
di stranieri all’interno dei nostri campionati, questo fenomeno rappresenta
soltanto la punta dell’iceberg, di un calcio che è rimasto fermo alla fine
degli anni Novanta e dal quale non riesce più a sorreggersi per andare avanti.
Un sistema calcio abbandonato a sé stesso e allo sfascio da anni, che inibisce,
con l’assenza di regole chiare e ben precise, lo sviluppo, la crescita e la
carriera dei nostri giovani, per non parlare della mancanza di cura per i
dettagli nei settori giovanili divenuti ormai solo dei serbatoi “aggiusta
bilanci” al servizio delle grandi squadre. Ma nessuno si rende conto
veramente del problema di fondo e cioè che questi ragazzi oggi hanno smesso di
divertirsi giocando a calcio poiché nessuno è più disposto ad ascoltarli oltre
a non avere più la possibilità di poter sbagliare liberamente con la propria
testa. Oggi il calcio è diventato sempre più competitivo, atletico,
veloce e soprattutto troppo dipendente dalla tattica a scapito dell’estro, della
libertà di movimento e del dribbling sempre meno utilizzato nelle
giocate individualiste. Oggi si guarda più alla linea di passaggio, alle
marcature a uomo, al Tiki Taka, all’intensità, al pressing, all’esaltazione del
gioco sulle fasce senza quasi mai ricercare il tiro da fuori area. Dunque, i
dribbling sono diventati sempre più merce rara, rappresentano il nemico del
collettivo, l’errore da non commettere e cosa più importante l’attaccante ha
smesso di essere quel bomber d’aria di rigore che tutti temevano poiché nel
calcio di oggi deve essere sempre più l'uomo simbolo del sacrificio al servizio
della squadra. Con queste premesse dunque non c’è assolutamente da sorprendersi
se nel nostro calcio non si riescono più a trovare giovani italiani da lanciare
con maggiore frequenza ma è anche una questione, come dicevo precedentemente,
di evoluzione dei tempi.
Vedete fino alla mia generazione, anni Novanta,
i ragazzi come me scendevano a giocare per strada con due pali fatti di pietre,
un campo d’asfalto e con traverse e linee di campo immaginarie. Non c’erano le classiche pettorine a distinguerci,
per dissetarci, dopo tre ore no stop, bevevamo dai rubinetti del garage;
usavamo palloni di tutti tipi che erano sgualciti a tal punto da diventare
anche ovalizzati. Ci si ritirava a casa con le ginocchia sbucciate
dall’asfalto, la cosa migliore che ti potesse capitare quando riuscivi ad
attutire la caduta dopo un fallo da dietro. I due più forti del gruppo facevano
le squadre, tutto il resto accettava le decisioni dei capitani in silenzio
perché già la sfida era iniziata…. e che lo spettacolo abbia inizio. In
strada si pensava solo al divertimento puro, senza arbitri, senza allenatori,
senza nessuno che ti dava indicazioni su quello che dovevi o potevi fare ma
solo con la consapevolezza di giocare in libertà senza nemmeno
accorgerti del tramonto del sole all’orizzonte. Oggi tutto questo non esiste
più o lo si rivede raramente in qualche piccolo quartiere di periferia dove
ancora la “strada” rappresenta una scuola di vita rispetto alle innumerevoli “Accademy”
dove i bambini hanno smesso di divertirsi da tempo.
L’UOMO CHE HA CAMBIATO IL CALCIO: DAVID BECKHAM
"Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette. Questo altr'anno
giocherà con la maglia numero sette"
Chi non ha sognato di essere, per chi ama il calcio,
almeno una volta nella vita il grande David Beckham? Per molti è stato soprattutto l’apripista
per eccellenza del calciatore “brandizzato”, il boom di vendite delle
magliette dei LA Galaxy, dopo il suo trasferimento in Mls dal Real
Madrid, ne è stata da sempre un grandissimo esempio. Lo “Spice Boy”, soprannome
guadagnato dopo il suo matrimonio con Victoria Adams, cantante del grande
gruppo delle Spice Girl, è stato apprezzato, soprattutto nelle sua
seconda parte di carriera, più come una star del marketing che per il suo
grande talento di calciatore professionista.
Eppure tutti lo ricordiamo come un grande giocatore capace di imprimere
qualsiasi genere di traiettoria al pallone, utilizzando tra l’altro in modo
quasi del tutto indifferente entrambi i piedi, per non parlare della grande
professionalità avuta dall’inglese nel corso della sua carriera, testimoniata
da tutti gli allenatori che lo hanno avuto come giocatore.
Ma nonostante si sia ritirato da diversi anni dal calcio giocato, David
Beckham viene molto spesso associato all’immagine di colui che coniugava
più il dilettevole all’utile. Eppure, forse, la trasposizione totale del calcio
nel business la si può far combaciare proprio con lui, poiché è stato
il primo atleta-brand, in grado di guadagnare, con le attività
extracalcistiche fino a 70 mila euro al giorno; riuscendo a diventare la prima
icona planetaria del mondo del calcio più di quanto non fossero riusciti a
essere, prima di lui, campioni assoluti dell’universo pallonaro come: Pelè, Di
Stefano, Maradona e Cruijff. Forse ancora oggi icona lo è più di quanto
non riescano a fare altri re del football mondiale, come Messi a Cristiano
Ronaldo, i cui indici di popolarità, “fuori dal campo”, restano comunque
elevatissimi ma nemmeno troppo paragonabili con l’ex campione inglese visto che
più nessuno si stupisce nel vederlo ancora ritratto in gigantografie
pubblicitarie, ricercato dalle più importante griffe del mondo e accerchiato
dai fotografi e paparazzi.
DUNQUE, DOVE E’ FINITO IL CALCIO DI
STRADA?
Quindi Beckham inconsapevolmente è stato l’uomo che
più di tutti ha cambiato il calcio di oggi rendendolo unicamente un business di
livello mondiale. Forse per questo motivo non si ha più
la pazienza di aspettare i giovani, di vederli sbagliare e soprattutto di
lasciarli liberi di esprimere il loro talento? E poi perché non si gioca più
per strada?
Anche il più grande talento tecnico nella storia del calcio, come Diego
Armando Maradona nasce per strada tra le vie del suo quartiere in Argentina
e lo fece senza allenatori, arbitri e regole, riuscendo ad emergere solo con
l’istinto, il talento e la fame di chi voleva spaccare il mondo solo con un
pallone tra i piedi come desiderio e speranza di fuga dalla povertà. Ma
tornando ai nostri tempi, il panorama calcistico di oggi appare del tutto
desolante. i bambini oggi non circolano più perché giocare a
calcio in strada e nelle nostre strade, non è più nemmeno concesso da alcuni
assurdi regolamenti comunali. La conseguenza più evidente di questa
mancanza è che in campo, oggi, ci vanno giovani ragazzi che si sono formati,
come calciatori, solo all’interno di più o meno rispettabili scuole calcio. Una
vita da automi sedentari, vissuta attraverso una routine ben specifica:
frequentare la scuola di mattina, doposcuola di pomeriggio quando mamma e papà
lavorano, e ancora “scuola”, questa volta calcio, anche durante il tempo libero
se ne resta. È questa la libertà che viene data oggi, e che è stata
concessa ieri, ai bambini del nuovo millennio? Una “libertà” in cui
non è più nemmeno concesso loro di prendere decisioni autonomamente anche
quando vogliono semplicemente giocare a pallone per strada con gli amici? Quello
che realmente nel calcio di oggi, soprattutto in Italia, non si riesce a
comprendere è che la “strada”, con le sue insidie, i suoi ostacoli, la
sua durezza, aguzza l’ingegno del calciatore poiché si eleva la velocità di
pensiero oltre all’affinazione della tecnica di base.
Maradona non è stato di certo l’unico giocatore ad
aver iniziato a giocare a calcio per strada ma ad esempio anche un
grandissimo fuoriclasse come Johan Cruijff, che era nato in un vero e proprio
quartiere di cemento, Betondorp che significa
letteralmente questo, non ha mai rinnegato il suo passato anzi si
compiaceva d’esser cresciuto per strada, dove ha imparato a sue spese
che un ginocchio sbucciato poteva, a volte, fare più male di una
pallone perso malamente a centrocampo, e che uno gol sbagliato a porta
vuota poteva costare ben più caro, tra i bambini, del rimprovero di un mister
attempato. Ed ha sottolineato più volte come per strada, a
proposito, non esisteva nessun Mister o allenatore che lo avrebbero potuto
costringere a nascondere il suo talento emergente, negandogli la liberà di
pensiero, un colpo di tacco in più o l’eccessivo utilizzo del dribbling.
Questo rappresenta l’esempio lampante di come sia inutile continuare a negare
oggi che questa eccessiva professionalizzazione prematura della figura
del giovane calciatore fa di fatto smettere la funzione ricreativa che ha da
sempre avuto il calcio, trasformandolo solo in un “mestiere” in cui non c’è più
spazio per il divertimento. Mentre invece dove il mondo è economicamente
più indietro a calcio ci si continua a giocare spesso e volentieri nella
maggior parte dei casi senza scarpe, senza maglia, senza campi, nel bel mezzo
del nulla e a volte pure senza un pallone vero e proprio. La libertà di
divertirsi in quei luoghi rimane ancora la cosa che conta di più: un tunnel
vale più della gioia di un gol, l’abbraccio di un compagno vale sicuramente più
di un tiro fatto alla playstation all’interno di quattro mura di una stanzetta
buia. Nel nostro mondo il calciatore di strada è ormai una specie rara sempre
più a un passo dall’estinzione, oggi quasi nessuno potrà capire che giocando
a calcio per strada, sull’asfalto, il tempo scorre più velocemente, inseguendo
una logica incomprensibile rispetto a chi rincorre un pallone scorrazzante
sull’erba appena tagliata e con le linee di campo ben delineate da un candido
colore bianco. Nella ruvidità del cemento, una finta di corpo può
essere più efficace di un dribbling a campo aperto, e ogni pallone calciato
avrà sempre una storia da raccontare. Il calcio di strada è
nostalgia di un mondo che non esiste più nel peggiore dei casi; invece, nella
migliore delle ipotesi rimane ancora una fantasia esotica di superficie nera,
piedi scalzi e tramonti celestiali. Perché in fin dei conti un
giocatore:
“Lo vedi dal coraggio, dall’altruismo
e dalla fantasia”
Ciccio Indi
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