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È ufficiale, possiamo dirlo, siamo tornati a essere una squadra di pazzi, da TSO. Forse, aver passato decenni a cantare quanto eravamo folli ci ha fatto impazzire per davvero. Strana potenza della parola, ma è sin troppo semplice sabotarsi da sé! Ora il gruppo si lecca ferite che non fanno male, accampa scuse, continua a ripetere frasi circostanziali, un po' come fa il bambino, quando finge d'essere dispiaciuto per una marachella. Già, molto più saggio il buon vecchio ritiro, i gradoni fatti su e giù fino allo sfinimento, col sole cocente o con la pioggia scrosciante, non importa, conta che il gruppo impari il senso della sofferenza, l’abnegazione, il rispetto, l’educazione, che i singoli disperdano il proprio ego attraverso il sudore della fronte, e si ritrovino stremati, alla fine dell’ultimo gradone, a guardarsi negli occhi senza più fiato per parlare, né parrucchieri tra i piedi.
Labor; lavoro; labour; travaille; trabajo e arbeit sono parole diverse per dire la stessa cosa: “pena”; “fatica”; “sofferenza”; “sforzo”.
Un’etimologia negativa per un vocabolo il cui significato resta altamente incompreso. Un tempo, allo stadio ci andavano gli operai “avvelenati” dalla catena di montaggio, i figli del Popolo in perenne contrasto col padrone; gente che, a torto o ragione, era incazzata per davvero. Quella gente sapeva riconoscere un vero atleta da un guascone qualunque, quella gente, dopo tutto, non c’è più. Il “lavoro” è divenuto “impiego”: parola neutra, asettica, priva di connotazioni politiche e sociali, insomma, perfetta per il nostro tempo frivolo.
In un’epoca schiava del selfie, certi atleti assurgono a divinità neo pagane, adorate da masse deliranti che fomentano l’ego d’individui la cui esistenza dipende esclusivamente dal clamore di sé. Non farò nomi, ma con un po’ d’indignazione troverete da voi i santoni del glamour, gli apostoli della chiacchiera, i sottoprodotti dell’arte borghese. Amare significa dire la verità e la realtà dei fatti parla di un gruppo senza umiltà, in aperta contestazione col proprio allenatore.
Il maestro severo non c’è più e gli scolari prendono a calci i banchi, rifiutandosi d’ascoltare. Eterno ritorno nerazzurro, come quando De Boer, allo scoccare del ventottesimo, richiamò in panchina uno svogliato Kondogbia, motivando la sua decisione con un secco: “Non mi ascolta, fa sempre gli stessi errori”.
Tempo addietro, se ne accorse anche Marcello Lippi, nella sua breve e infelice parentesi Milanese:
“Se fossi il presidente manderei via subito l’allenatore, prenderei i giocatori e gli attaccherei tutti al muro e darei calci nel culo a tutti... Perché non esiste giocare in questa maniera”.
L’indisciplina, l’insubordinazione, l’indolenza sono atteggiamenti indifendibili e inqualificabili per chi ha ricevuto e continua a ricevere tanto, sia in termini economici, sia in termini di affetto da parte del popolo interista. Prima che tutti salgano sulla nave dei folli, servono provvedimenti esemplari, anche drastici, se necessario.
Sia chiaro, si può vincere e perdere, ma ci sono alcune regole che trascendono il calcio, principî fondamentali senza i quali non si può lavorare, tanto meno in gruppo. I portoni della Pinetina sono aperti, le seduzioni del mercato tante, chi ci ama ci segua, altrimenti cambi aria. L’Inter continuerà a esistere malgrado, e soprattutto, senza di loro.
Nicola Murrali
In copertina: La Nave dei folli; Hieronymus Bosh; 1494 circa.
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